Stefania Zuliani — 15/07/2021

Polyphōnia. La misura dello sguardo 

Polyphōnia è una ricerca che, seguendo una consolidata consuetudine, Pino Musi ha sviluppato nel tempo in una serie di scatti fotografici. Si tratta di un progetto con cui negli ultimi anni l’autore ha voluto dare dignità di visione alle nuove periferie, a quelle espansioni urbane che dilatano il perimetro, sempre incerto, delle grandi città.

Un lavoro già in parte confluito in un libro dalle proporzioni auree, Border Soundscapes (2019), che Musi ha condotto soprattutto ai confini di Parigi, città in cui da anni vive e lavora, come pure sui bordi sfrangiati di Anversa e di Berlino.

Poco, o forse nulla importa il dove o il quando: ogni scatto si nega al gioco rassicurante del riconoscimento. E questo non solo perché è l’uniformità dell’edilizia a caratterizzare troppo spesso il recente sviluppo delle città: più radicalmente, Musi ha scelto di sottrarre le sue immagini urbane alle temperature e agli inconvenienti di uno specifico contesto adoperando con precisione chirurgica “la mano invisibile del digitale”.

Non si tratta certo di un’operazione di maquillage, l’intenzione non è quella di addolcire le contraddizioni o di mascherare la brutalità dei contrasti, al contrario. Piuttosto, è askesis ciò che Musi mette ostinatamente in opera. Quell’ascesi che per il fotografo è soprattutto (auto)disciplina, una pratica di riduzione e di correzione che non riguarda mai la superficie ma ha piuttosto a che fare con la ricerca di un significato nascosto. Musi compie anche qui con serietà il suo rituale di purificazione elettronica senza però rinunciare all’inquietudine della curva, ad un segno di movimento e di trasformazione che opportunamente si annida nelle immagini di Polyphōnia.

Le sessanta fotografie che riscrivono lo spazio del Tempio di Pomona sono documenti di un mutamento, ciascuna di esse dichiara uno spostamento, un passaggio, una interpretazione che è una nota sonora sullo spartito della parete.

Come era accaduto in occasione della Biennale Architettura di Venezia del 2012, dove le facciate di significativi edifici milanesi erano state montate in un lunghissimo polittico orizzontale, anche in questo caso ogni immagine rafforza e intensifica l’altra. La accentua perché quando si costruisce un testo o un’immagine, un’opera, non si tratta di dire sempre la verità ma “di accentuarla. Di illuminarla - di sfuggita, in maniera lacunosa - attraverso istanti di rischio” (Didi-Huberman).

Perché il lavoro del fotografo è quello di dare luce, di far vedere. Un compito, Musi lo sa bene, che comporta la responsabilità inesorabile della scelta e dello scarto. Ci sono cose che resteranno nell’ombra, immagini che non vedranno la luce e però, questa è la soluzione che Polyphōnia ci propone, di ciò che non si mostra resta traccia nell’accordo sonoro, ogni volta diverso, che ciascuna fotografia trova con tutte le altre. È un invito all’ascolto, ad un percorso di visione che assume ogni volta il nostro ritmo e il nostro desiderio.

Guarda, ascolta. Polyphōnia.

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